lunedì 4 agosto 2008

Aleksandr Solženicyn


Come sempre, alle cinque del mattino, suonarono la sveglia percuotendo con un martello un pezzo di rotaia appeso vicino alla baracca del comando. Il suono intermittente attraversò, debole, i vetri, coperti di due dita di ghiaccio, e presto si spense: faceva freddo, e la guardia non aveva voglia di battere a lungo.

Nel 1962 la rivista russa Novyi Mir pubblicò “Una giornata di Ivan Denisovic", opera di un insegnante quarantaquattrenne di matematica di Rjazan. Il suo successo fu inspiegabile: le prime due edizioni andarono a ruba, veniva copiato a mano per lunghe ore nelle biblioteche, in breve sarebbe stato tradotto in tutto il mondo. E divenne un evento politico, capace di suscitare virulente polemiche.

I lettori scoprirono che le espressioni vaghe e fumose del regime sovietico avevano un altro aspetto, reale: una vita, anche se era difficile chiamarla così, in un deserto di neve circondato da filo spinato, in baracche di legno sorvegliate da guardie armate sulle torrette, come nei lager nazisti. Erano i famigerati gulag e l’intuizione dell’autore fu quella di raccontare la giornata di uno dei deportati, una sola giornata, per giunta “quasi felice”. Come sarebbero state le altre visto che “la pena affibbiatagli. dal principio sino alla fine, contava tremilaseicentocinquantatre giornate come quella. Per via degli anni bisestili si allungava di tre giorni ancora…”?

L’autore di “Una giornata di Ivan Denisovic” aveva provato sulla sua pelle il gulag: Aleksandr Solženicyn, morto novantenne ieri notte a Mosca per un’insufficienza respiratoria, era stato condannato nel 1945 a otto anni di lavori forzati e a tre di confino per avere giudicato sbagliata la strategia di Stalin durante la seconda guerra mondiale. Invece del Premio Lenin, cui era sembrato vicino nel 1964, il romanzo d’esordio gli valse la revoca della cittadinanza e l’odio del nuovo regime sovietico: la riabilitazione succeduta alla morte di Stalin era diventata carta straccia.

Quando nel 1970 gli fu assegnato il Premio Nobel per la Letteratura, Solzenitsyn non poté ritirarlo: lo fece nel 1974, quando venne espulso dall’Unione Sovietica e poté ritirarsi nel Vermont. Quello stesso anno uscì il suo monumentale romanzo “Arcipelago Gulag”, che rinnovava il tema, trattato anche in “Divisione Cancro” del 1968.

La Russia, subentrata al tracollo del regime comunista, lo invitò a tornare, ma non lo amava poi molto: si avvicinò alla chiesa ortodossa e solo nel 2000 con Putin poté vedere riconosciuta la sua fama e la sua importanza per il paese che lui invece tanto amava. Nel mondo era ormai da quarant’anni un’icona dei paladini dei diritti umani e della libertà di parola.


Aleksandr Solženicyn



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LA FRASE DEL GIORNO
Il lavoro è come un bastone, ha due estremità: per la gente fai le cose bene, per gli stupidi fai solo finta.
ALEKSANDR SOLZENICYN, Una giornata di Ivan Denisovic




Aleksandr Isaevič Solženicyn (Kislovodsk, 11 dicembre 1918 – Mosca, 3 agosto 2008),  scrittore, filosofo, storico e drammaturgo russo. Conservatore, anticomunista e soprattutto antimodernista, con i suoi scritti fece conoscere al mondo la realtà dei gulag, campi di rieducazione per dissidenti del regime, in uno dei quali fu detenuto per molti anni. Nel 1970 ottenne il Premio Nobel per la letteratura.


2 commenti:

Luciana Bianchi Cavalleri ha detto...

Abbiamo perduto un GRANDE
(e non solo letterariamente parlando!)

DR ha detto...

Il coraggio di una voce contro quando levarla significa pagare in prima persona.