sabato 19 giugno 2010

José Saramago


Lo scrittore portoghese José Saramago, Premio Nobel per la Letteratura nel 1998, è scomparso ieri a Tias, nell’isola di Lanzarote, suo rifugio dopo le virulente polemiche con la Chiesa di Lisbona innescate proprio dal Nobel. Era nato ad Azinhaga il 16 novembre 1922.

La polemica era del resto nelle sue corde: oltre a quella sull’ateismo, la sua sfiducia di comunista estremo nell’Unione Europea, il sostegno ai palestinesi – e di rimando le accuse di antisemitismo, la querelle con Berlusconi che spinse Einaudi a non pubblicare il suo “Quaderno”.

L’ultima sua fatica è stata “Il viaggio dell’elefante”, epico viaggio di un elefante di nome Salomone da Lisbona a Vienna nel XVI secolo. Ma le sue opere più famose sono i romanzi “Memoriale del convento”, originale narrazione della costruzione del convento di Mafra nel Settecento e degli eventi ad esso legati, e “Il Vangelo secondo Gesù Cristo”, che riscrive la canonica storia di Gesù attingendo alle Sacre Scritture ma con una visione razionalista e critica che spesso raggiunge toni dissacratori. E proprio questo modo di raccontare e di porsi da un punto di vista differente dall’ufficialità è la caratteristica principale di Saramago scrittore.

Da segnalare anche alcune raccolte di poesie: “I poemi possibili”, “Probabilmente allegria” e “L’anno mille993”. Poi cronache, teatro, saggi e – segno della sua modernità – un blog che trattava di politica e letteratura.


saramago

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DAL BLOG “IL QUADERNO DI SARAMAGO”

POETI E POESIA
(19 maggio 2009) in occasione della morte di Mario Benedetti

Non sarà con tutti né sarà sempre, ma alle volte succede quello che stiamo vedendo in questi giorni: che, per la morte di un poeta compaiono, in tutto il mondo, lettori di poesia che si dichiarano devoti di Mario Benedetti e che hanno bisogno di una poesia che esprima il loro sconforto e forse anche per ricordare un passato in cui la poesia aveva un posto d’onore permanente, mentre oggi è l’economia che non ci lascia chiudere occhio. Così quindi, all’improvviso si è stabilito un traffico di poesia che deve aver lasciato perplessi gli analisti ufficiali, perché da un continente all’altro volano strani messaggi, di originale fattura, corte righe che sembrano dire più di quello che si creda a prima vista. I decifratori di codici non riescono a interpretare, ci sono troppi enigmi da decifrare, troppi abbracci e troppa musica che accompagnano sentimenti, anche loro troppi: il mondo non potrà sopportare a lungo questa intensità di emozioni, ma allo stesso tempo, senza la poesia che oggi si esprime, non saremmo noi interamente umani. E questo, in poche righe, è quello che sta succedendo: è morto Mario Benedetti a Montevideo e il pianeta è diventato troppo piccolo per contenere la commozione delle persone. Subito i libri si sono aperti e hanno cominciato a spandere versi, versi d’addio, versi di militanza, versi d’amore, le costanti della vita di Benedetti, insieme alla sua patria, ai suoi amici, al calcio e ad alcune botteghe con lunghe bevute e notti ancora più lunghe.

È morto Benedetti, questo poeta che è riuscito a farci vivere i nostri momenti più intimi e le nostre rabbie meno nascoste. Se con le sue poesie uscissimo per strada – fianco a fianco saremmo molto più che due -, se leggendo “Geografie”, per esempio, imparassimo ad amare un piccolo paese e un continente grande, adesso, viste le lettere che arrivano alla Fondazione, si recupererebbero momenti di amore che hanno dato senso a tempi lontani, e chissà se presenti. Dobbiamo a Bendetti anche questo, al poeta che morendo ci ha fatti eredi del bagaglio di una vita fuori dal comune.

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DALLA LETTURA PER IL PREMIO NOBEL, 7 dicembre 1998

«L’uomo più saggio che io abbia conosciuto non sapeva né leggere né scrivere. Alle quattro di mattina, quando la promessa di un nuovo giorno stava ancora in terra di Francia, si alzava dal pagliericcio e usciva nei campi, portando al pascolo la mezza dozzina di scrofe della cui fertilità si nutrivano lui e sua moglie, i miei nonni materni. […] Talvolta, nelle calde notti d’estate, dopo cena, mio nonno mi diceva: “José, stanotte dormiamo tutti e due sotto il fico” […]. In piena pace notturna, tra gli alti rami dell’albero, mi appariva una stella, e poi, lentamente, si nascondeva dietro una foglia, e, guardando da un’altra parte, come un fiume che scorre in silenzio nel cielo concavo, sorgeva il chiarore opalescente della Via Lattea. E mentre il sonno tardava ad arrivare, la notte si popolava delle storie e dei casi che mio nonno raccontava: leggende, apparizioni, spaventi, episodi singolari, morti antiche, zuffe di bastoni e pietre, parole di antenati, un instancabile brusio di memorie che mi teneva sveglio e al contempo mi cullava. Non ho mai potuto sapere se lui taceva quando si accorgeva che mi ero addormentato, o se continuava a parlare per non lasciare a metà la risposta alla domanda che gli facevo nelle pause più lunghe che lui volontariamente metteva nel racconto: “E poi ?” […] Molti anni più tardi, scrivendo per la prima volta di mio nonno Jeronimo e di mia nonna Josefa, mi accorsi che stavo trasformando le persone comuni che erano state in personaggi letterari, e che questo era probabilmente il modo per non dimenticarli, disegnando e ridisegnando i loro volti con un lapis cangiante di ricordi […]. Nel dipingere i miei genitori e i miei nonni con i colori della letteratura, trasformandoli da semplici persone in carne e ossa in personaggi di nuovo e in modi diversi costruttori della mia vita, senza accorgermene stavo tracciando il percorso attraverso il quale i personaggi che avrei inventato, gli altri, quelli veramente letterari, avrebbero fabbricato e mi avrebbero portato i materiali e gli arnesi che, finalmente, nel buono e nel meno buono, nel sufficiente e nell’insufficiente, nel guadagnato e nel perduto, in quello che è difetto, ma anche in quello che è eccesso, avrebbero finito per fare di me la persona in cui oggi ancora mi riconosco: creatore di quei personaggi, ma al tempo stesso loro creatura».

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DA “LE POESIE POSSIBILI”, 1981

IMPARIAMO, AMORE...

Impariamo, amore, da questi monti
Che, così distanti dal mare, sanno il gesto
Di bagnare nell'azzurro gli orizzonti.

Facciamo ciò che è giusto e diretto:
Da desideri occulti altre fonti
E scendiamo al mare dal nostro letto
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LUOGO COMUNE DEL QUARANTENNE

Quindicimila giorni secchi sono passati,
Quindicimila occasioni che si sono perse,
Quindicimila soli inutili che sono nati,
Ore su ore contate
In questo solenne ma grottesco gesto
Di dare corda ad orologi inventati
Per cercare, negli anni smemorati,
La pazienza di andar vivendo il resto.

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LA FRASE DEL GIORNO
Non di rado ciò che sta scritto è sfasato rispetto a ciò che, in quanto vissuto, dovrebbe avergli dato origine. Non si domandi pertanto al poeta ciò che ha pensato o sentito, è proprio per non doverlo dire che scrive versi.
JOSÉ SARAMAGO, L’anno della morte di Ricardo Reis




José de Sousa Saramago (Azinhaga, 16 novembre 1922 – Tías, 18 giugno 2010), scrittore, giornalista, drammaturgo, poeta, critico letterario e traduttore portoghese, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1998 perché “con parabole, sostenute dall'immaginazione, dalla compassione e dall'ironia ci permette continuamente di conoscere realtà difficili da interpretare”.


5 commenti:

CT ha detto...

sei un mago...in questa raccolta di sue cose hai colto tutto, è sempre un piacere venire qui!

DR ha detto...

mi piace sintetizzare: invece di dilungarmi sulla poetica o di annoiare con le notizie, lascio parlare i testi, che in questo caso diventano - gioco di parole - i veri testimoni

AlmaCattleya ha detto...

Ho voluto anch'io omaggiare José Saramago appena sentito che era morto. Era passata qualche ora.
L'ho voluto modificare per renderlo più completo. Ho aggiunto alcune poesie che, vista la triste occasione, per me dicono molto.

DR ha detto...

almacattleya, metto il link al tuo blog: Farfalle eterne

Unknown ha detto...

i buoni e i cattivi risultati delle nostre parole e delle nostre azioni si vanno distribuendo, presumibilmente in modo alquanto uniforme ed equilibrato, in tutti i giorni del futuro, compresi quelli, infiniti, in cui non saremo più qui per poterlo confermare, per congratularci o chiedere perdono. Da: "Saggio sulla cecità"